La storia dell’amaca a Valencia
16 Agosto: torno dalla Romania e senza uscire dall’aeroporto prendo un
aereo per la Spagna, con lo zaino in spalla e un’amaca, all’avventura, senza
sapere dove andare o dormire.
Arrivato, raggiungo un amico, ma dopo alcuni giorni insieme è chiaro
che lui cerca le feste e se ne va a Murcia, io le avventure e rimango a
Valencia.
Il giorno che ci dividiamo, fatto il
check-out all’ostello di prima mattina, non riesco a trovarne un altro, e colgo
l’occasione per cercare un monastero che mi ospiti per la notte (da anni
nutrivo questo desiderio).
Chiedo nella prima chiesa, e mi rimandano da una all’altra, fino a che
mi ritrovo a bussare all’Arcivescovato di Valencia. Aperte le massicce porte, il
custode mi dice di tornare l’indomani, ma per me era troppo tardi. Allora cerco
in internet, e nel tardo pomeriggio trovo qualcuno che forse conosce un posto, e
può aiutarmi a contattarlo.
Charlie, fisioterapista mingherlino sulla cinquantina, mi accoglie in
casa sua e insieme telefoniamo a tutti i monasteri della provincia, ma nessuno
ha un posto libero per settimane, e il mio sogno sfuma ancora.
Di fronte a un nuovo cambio di piani, decido di spendere qualche giorno
di solitario riposo con la mia amaca. Charlie si offre di accompagnarmi il
giorno dopo in un bosco vicino, intanto posso dormire da lui. Vive da solo ed è
di una premura speciale: cucina per me, mi lava i vestiti, mi insegna a fare la
paella Valenciana.
Tre giorni dopo, lo odio. Continua a rimandare la partenza, e la sua esagerata
cordialità è diventata un tremendo assillo. Hai fame? vuoi mangiare? hai
sete? senti caldo? tutto bene? ti accompagno a fare un giro? vuoi sapere come
mangiamo le arance qui? Inoltre, dopo aver notato la foto della defunta
madre come sfondo del suo cellulare, sento crescere un senso di inquietudine.
Anche quando finalmente partiamo, per tutto il viaggio in auto continua:
ma sei sicuro di andare? vuoi che rimanga con te? hai da mangiare? hai
controllato il meteo? non hai paura? perché vuoi stare da solo? Io lo
liquido infastidito, anche se una di queste domande avrei fatto meglio ad
ascoltarla.
Arrivati all’ingresso di questo immenso parco naturale, con alberi e vegetazione
stepposa da un lato e scogliera dall’altro, insiste nell’accompagnarmi per un’ora di cammino (vuoi
che ti porti lo zaino?), prima di andarsene. Solo, tiro finalmente un
sospiro di sollievo, quando lo vedo tornare sui suoi passi.
Hai dimenticato l’acqua!
Si sta già facendo buio: lego l’amaca tra due alberi e mi stendo. Non ho
mai dormito fuori da solo prima. Cerco di ignorare i rumori intorno a me, come
di qualcosa che smuove il terreno, ho troppa paura per controllare, in alto
sono al sicuro, ormai è buio pesto, non c’è nessuno per chilometri e
chilometri, chiudo gli occhi e mi addormento…
A mezzanotte mi sveglio, improvvisamente. Sta piovendo. L’amaca si riempie
d’acqua.
Cazzo. Non avevo controllato le previsioni meteo.
Che faccio? Non posso restare, e il cellulare non prende. È
tutto nero, in mezzo ai rami. Mi copro con un asciugamano e vado verso la
strada, lasciando tutto lì. Non so dove andare, prendo una direzione a caso e
inizio a camminare.
Dopo non molto, vedo dei fari in lontananza: un’auto! Ma quando si
avvicina, si scopre essere due biciclette: spiego loro la situazione, che non so
cosa fare e mi sto bagnando tutto. Anche io mi sto bagnando mi risponde
uno, e se ne vanno. Intanto esce la luna, continuo a camminare.
Poco dopo vedo le luci rosse e blu della polizia. Ottimo, loro mi possono
aiutare. Mi spiegano che possono caricare in auto solo detenuti, si rifiutano
di arrestarmi e se ne vanno. I vestiti stanno cominciando a inzupparsi, ma
continuo.
Dietro una svolta, vedo un capannello di persone in piedi sull’orlo di
un dirupo, completamente al buio, accanto una macchina. Non sono nella
condizione di farmi domande, chiedo aiuto, ma la risposta della signora mi
terrorizza:
Je ne parle
pas espagnol.
Vani i
tentativi di comunicare in qualsiasi altra lingua. Perdo le speranze e continuo.
L’auto della polizia sta tornando indietro. Probabilmente spinti dalla
pena, mi fanno salire, ma non devo fare rumore. Mi lasciano (infinitamente
grato) di fronte a un hotel, nella città vicina di Peñiscola. È finita, penso.
Ma il sollievo dura poco, perché l’hotel
è pieno. È un lunedì sera, mi rassicuro, ne troverò sicuramente un
altro. Ma mi si palesa presto, e in questa infelice serie di eventi lo
accetto con tranquilla rassegnazione, che non c’è nemmeno un letto libero in
tutta la città.
Sono ormai le due, e avendo smesso
di piovere decido di coricarmi qualche ora sulla spiaggia. Trovo un angolo
adatto, dove posso finalmente riposare. Venti minuti dopo, ricomincia a
piovere.
Quasi divertito, riprendo il
vagabondaggio nella città (a questo punto le mie aspettative sono molto basse).
Il meglio che trovo per ripararmi è il gazebo di plastica di un ristorante: metto
tre sedie in fila e mi sdraio lì fino al mattino.
Mi alzo all’alba, tutto indolenzito,
con 26 punture di zanzara nella metà superiore del viso. Con due ore di cammino
recupero l’amaca e lo zaino; al ritorno faccio l’autostop e una giovane coppia mi
riaccompagna in macchina a Peñiscola. Mentre gli racconto la mia storia, li
vedo ascoltare preoccupati.
Ma tu sei
andato a dormire nel bosco? Non si può dormire là, è troppo pericoloso,
è pieno di cinghiali!
Così si è conclusa l’avventura: ho
preso un bus per Zaragoza, dove ho passato gli ultimi 4 giorni prima di
rientrare prematuramente, ancora un po’ scosso da quella lunga nottata.
La prossima
volta mi organizzo.